![]() |
Generosità |
![]() |
Tenacia |
![]() |
Resilienza |
Ho espresso nei post precedenti il mio legame quasi ancestrale con l'ulivo.
![]() |
Generosità |
![]() |
Tenacia |
![]() |
Resilienza |
Mi è sempre stato caro l'albero.
Ne parlo da un punto di vista del tutto personale, tralascio gli elementi oggettivi della funzione dell'albero, non perché siano secondari, anzi, preferendo in questa sede il mio rapporto con l'albero.
Nella prima infanzia, mi incantavo a guardarli quando erano scossi dal vento. Ho abitato in campagna per i primi otto anni di vita. Quando il mugghio del vento mi raggiungeva, non potevo evitare di uscire a guardare le querce che costeggiavano la strada comunale adiacente casa mia.
Mi incantavo incurante delle percosse e delle spinte inflittemi, a guardare assorta quelle chiome stravolte, scomposte, battute e mi convincevo un po' sgomenta e nel contempo affascinata, che quegli alberi erano inquieti, arrabbiatissimi col mondo e con gli uomini scatenando quel vento impetuoso che alzava polveroni, portava via cappelli, ostacolava il cammino e così via.
Da giovane studentessa, lo studio di Jean Piaget mi informava che quella mia teoria infantile si chiamava "animismo": la tendenza ad attribuire pensiero e coscienza a tutto ciò che è in movimento, scambiando la causa con l'effetto. Questo aggancio con i miei primi anni di vita hanno fatto di Jean Piaget e di tutti i suoi seguaci e sviluppatori di pensiero, Jerome Bruner in particolare, il mio faro pedagogico nel campo della mia vita professionale.
Ho sempre considerato l'albero una creatura vivente: l'osservazione dei suoi mutamenti e persistenze hanno fatto sì che scorgessi la sua profonda vitalità, ancor prima e oltre tutte le conferme scientifiche che ho potuto acquisire.
Mio padre, alla nascita dei suoi tre nipoti, soleva piantare alberi, gli ulivi soprattutto. Ne parlo in questo post: l'albero è foriero di speranza, in questo caso anche di nutrimento per il corpo e per lo spirito.
Non ho ancora assaporato la gioia della nascita dei nipotini; ma quest'autunno, seguendo i consigli del giovane agronomo del mio paese, ho messo a dimora 11 giovani piante: 9 leccini e 2 pendolini per riempire gli spazi che ospitavano le viti. In autunno, piuttosto che a marzo: la latitudine, i cambiamenti climatici lo consentono, cosicché le piantine affronteranno la prima fase della crescita, con temperature sostanzialmente miti, irrigate naturalmente dalle piogge, evitando la calura estiva.
Piccolo leccino
Un giovane pendolino
Il nome richiama i suoi rami leggermente penduli: è un impollinatore, mi ha detto l'agronomo. Poche unità sono sufficienti per potenziare la fioritura di un uliveto.
Un gesto lungo e paziente la piantumazione: un buco di un metro cubo scavato nella terra, e poi riempito della stessa terra che sarà soffice, aerata, ossigenata; qualche settimana e si procede all'interramento. Tre, cinque centimetri più in profondità rispetto al pane di terra. Un robusto sostegno per accompagnare la nuova pianta nella crescita, pochi litri di irrigazione e ora si attende con pazienza. Tutto, a parte lo scavo, affidato a mezzi meccanici, è stato svolto da me e mio marito.
Era il 23 di ottobre, un giorno di intervallo nella raccolta, nella fase della luna crescente, come raccomandavano i miei nonni e bisnonni. Aiuta la crescita, dicevano. E' una diceria ingenua? Poco importa, in questo rituale sono presenti anche loro.
Un gesto di amore, ma soprattutto un gesto di speranza: ora le pianticelle sono affidate al tempo, al sole, al vento, a madre terra, alle nostre cure e a quelle di chi verrà dopo di me.
Intanto, prima di diventare l'Abruzzo zona rossa, ho potuto constatare il bel verde delle foglie, qualche timido germoglio, la fierezza del portamento. Il primo step, lo stress da adattamento, è andato felicemente a buon fine! Dio sia lodato!
Per tutti gli educatori:
"Se c’è qualcosa che vorremmo cambiare in un bambino, dovremmo prima esaminarla e vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi." (Carl Gustav Jung)
Quando veniamo agganciati da qualcosa che ci disturba, generalmente accade perché quel qualcosa è parte di noi; appartiene a quella zona d'ombra di cui forse non siamo consapevoli o non accettiamo. Di qui la nostra reazione.
Prenderne coscienza, ma soprattutto farci i conti, significa diventare persone migliori.
Cosa niente affatto semplice: accettarsi e amarsi anche nei difetti.
Pubblico a posteriori; la raccolta delle olive mi tiene lontana dalla casa di residenza. Qui in campagna,12 giorni senza il televisore che ha deciso di abbandonarci, e senza rete cellulare se non fuori casa in strada o al piano di sopra nelle camere.
E' la festa di Ognissanti; urge sospendere la raccolta, non per una rigida obbedienza ad un precetto, ma perché così facevano i miei genitori, i miei nonni e i miei bisnonni e ovviamente tutte le generazioni precedenti. E' importante, in questo giorno, riconnettersi con le proprie dinastie per avvertire e ripristinare quel vincolo di unità profonda, difficile da veicolare con le parole.
Mi avvio lungo il viale verso il cimitero per assistere alla celebrazione.
Queste foglie e quella panchina che rimembra gli incontri, ma che fiduciosa ne attende di nuovi, mi fanno respirare aria di autunno, aria di riposo e di gestazione, di costruzione di nuova energia creatrice.
C'è mercato all'aperto di domenica. Ma stavolta sono pochi gli ambulanti che allestiscono in bella mostra la loro merce; i più hanno condiviso la mia decisione di sospensione, pochi i curiosi e gli acquirenti, forse relegati a casa dalla prudenza covid 19.
E mo, chi ce lo ridà un altro Gigi Proietti? Un grande su ogni palcoscenico, con qualunque testo. Unico.
«Chianci Palermu, chianci Siracusa Pingi Palermo, piangi Siracusa
a Carini c'è lu luttu in ogni casa.
Attorno a lu Casteddu di Carini,
ci passa e spassa nu beddu cavaleri.
Lu Vernagallu di sangu gintili
ca di la giuvintù l'onuri teni.
"Amuri chi mi teni a tu' cumanni,
unni mi porti, duci amuri, unni?"
Vidu viniri 'na cavallaria.
Chistu è me patri chi veni pi mmia,
tuttu vistutu alla cavallarizza.
Chistu è me patri chi mi veni a 'mmazza.
Signuri patri, chi vinisti a fari?
Signora figghia, vi vegnu a 'mmazzari.
Lu primu corpu la donna cadiu,
l'appressu corpu la donna muriu.
Nu corpu a lu cori, nu corpu 'ntra li rini,
povira Barunissa di Carini.»